Ogni giorno ci svegliamo, vestiamo, facciamo colazione, usciamo, studiamo o lavoriamo, rincasiamo, dormiamo. Ogni giorno parliamo e spesso ci lamentiamo come se fossimo vittime e il mondo ce l’avesse con noi.
Doris Salcedo, artista colombiana nata a Bogotà, patria di stragi, stupri, violenze di massa, ma anche di violenze terroristiche e passionali, invece che lamentarsi, decide di descrivere nel modo più attendibile possibile ciò che le vere vittime le raccontano attraverso installazioni pubbliche di grande potenza come Fragmentos.
In quest’opera, da lei concepita, venti donne colombiane vittime di stupri di massa decidono di fondere 37 tonnellate di armi con cui verrà steso un pavimento calpestabile per indicare che l’uomo può e deve essere superiore alla violenza stessa. Un modo per tradurre la violenza in spettacolo di cui loro sono le attrici, le scenografe, le protagoniste, un modo per tradurre le loro parole in un messaggio destinato a tutti.
Spesso la violenza non riguarda solo chi la subisce ma anche chi la compie: rimorsi, pentimenti, senso di colpa si trasformano in armi a doppio taglio che feriscono da entrambi i lati, vittima e colpevole.
Doris Salcedo è riuscita a riconoscere quest’aspetto della violenza già dal 1995, quando vinse il prestigioso premio Guggenheim Fellowship per le arti visive con l’opera ‘Preghiera muta’, smettendo di parlare dei fatti e tentando di tradurre in opere il pensiero di chi ha subito violenza: in altre parole intraprese la polare, ombrosa strada della concretezza. Il famoso vicolo buio.
Tornando a Fragmentos, queste venti donne ribaltano finalmente il ruolo delle armi nella vita dell’ uomo, poiché sono gli uomini, per una volta , a calpestare le armi e non il contrario.
Il pavimento è anche la base dalla quale iniziare a costruire le fondamenta di un edificio e, nel caso di quest’opera, il punto di partenza dal quale ricostruire la Colombia: un pavimento di migliaia di armi, strumenti nelle mani dell’uomo, ma nello stesso tempo strumenti che ne condizionano le scelte, la vita.
Nelle sue interviste Doris parla di un tunnel (l’idealizzazione del suo paese natale , la Colombia) , dal quale è impossibile uscire e dentro il quale l’unica luce è rappresentata da coloro che lei chiama ‘eroi’, persone sopravvissute all’indicibile o vittime cadute sul campo, la cui memoria va alimentata di continuo.
Non si può uscire dal tunnel, ma si trovano guerrieri per strada, che con la loro sofferenza illuminano la nostra vita e continuano a darci degli insegnamenti. Doris Salcedo ritiene di non potersi lamentare , perché non è stata vittima di violenza. Ma ascoltare e cercare di raccontare in modo fedele le cose che succedono a chi è stato meno fortunato, è ritenuto da lei più che un disagio un dono.
Di fronte a queste violenze, non possiamo di certo lamentarci come spesso facciamo per questioni insignificanti; forse dovremmo prendere atto che se non facciamo niente l’arma a doppio taglio della violenza entra più a fondo nella carne. La nostra e quella delle vittime.
Petroni Elena Sofia 1E
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