Viaggio a Creta, isola del mito. Parte 1: Tutta colpa di Minos

Bella e feconda sovra il negro mare una terra, che s’appella Creta,
dalle salse onde d’ogni parte attinta. 

Odissea; Libro XIX

Iraklion (Creta), 18 luglio 1991

Il tavolino era davvero curioso: tre gambe lignee, a forma di sirena bicaudata, sostenevano un disco metallico con l’effige stilizzata del “Principe dei gigli” sotto le spoglie di Minos, leggendario re di Creta. Da quasi un’ora, seduto al bar, aspettavo mio fratello Riccardino (Riki per gli amici e Riki, d’ora innanzi) che era entrato, dall’altra parte della strada, in un’agenzia di viaggi per tentare di posticipare il biglietto di rientro in Italia. Ero già al terzo caffè, quell’orribile caffè greco con un residuo di polvere di massa doppia rispetto al liquido. Assorto nella luce mattutina riflettevo su quale autore  avesse scritto che la particolare intensità della luce, in Grecia, contribuì al sorgere della filosofia: forse Giorgio Colli, La sapienza greca (Adelphi, 1977) o magari Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi, 1988). Meditabondo, neppure mi accorsi che, una ventina di metri più in là, un camionista, impedito a proseguire nella stretta via, si era messo a strombazzare all’impazzata per far accorrere il deficiente che aveva parcheggiato così male da impedire il transito. Particolare non trascurabile: il deficiente ero io. In pochi attimi si formò un capannello di urlanti. Inveivano furiosamente contro quell’anonimo conducente (anonimo, per ora); sicuramente uno straniero, visto il modello dell’auto (l’”uovo” della Suzuki che avevo noleggiato il giorno prima). Paralizzato, rimasi seduto, lo sguardo fisso all’immagine del mitico Minosse, come per ricevere ispirazione sul da farsi; se non un’idea precisa, almeno un responso in forma oracolare (e l’oracolo, si sa, dice e non dice, accenna). La vicenda, “inmenchenonsidica”, aveva preso una piega complicata. Cosa avrei potuto fare a quel punto? Ciapär na man d’boti? No, sicur. Così continuai a fare il finto tonto. Beh, non tanto finto, in verità, ma tant’è, avrei voluto vedere voi, affrontare una ventina di persone schiumanti di rabbia! Intanto il barista mi guardava con sospetto (forsi l’äva magnä la foia). Lo fissai pure io e, ruotando l’indice destro, dissi: – Un altro caffè, grazie. (Pensai: toh, ciapa su e porta a cà). Intanto, dall’agenzia di viaggi, era uscito Riki. Gli feci un cenno e mi raggiunse. Il Suzukino fu spostato a forza sul marciapiede, liberando il passaggio al camion. Sussurrai a mio fratello: – Prendi un caffè, guarda altrove, godi la luce di tre quarti sul biancazzurro delle case. Lasciamo che la gente si disperda. -Dopo aver simulato un’improbabile  riflessione, sbottò: – Ma non avevi detto che il caffè greco fa cagare?- 

Prof. Luigi Lanzi

 

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