“Cos’è una buona opera d’arte? È qualcosa che possiede quell’energia che ti mette in sintonia con quanto sta accadendo alle tue spalle … se prendi tutto quello che fai come una questione di vita o di morte, e sei presente al cento per cento, allora le cose accadono davvero. Meno del cento per cento non è arte degna di questo nome. È così difficile, ma è l’unico modo” (Marina Abramovič).
Dopo aver visitato la mostra The Cleaner ( Palazzo Strozzi, Firenze) chiunque sarebbe d’accordo nell’affermare che Marina Abramovič dava davvero “il cento per cento” durante le sue performance.
L’artista, autodefinitasi “nonna della performance art”, è una delle personalità più carismatiche e rivoluzionarie del panorama artistico moderno ed è tornata in Italia con un’esposizione che ripercorre la sua rivoluzionaria carriera artistica.
Una mostra che comincia con una delle sue più iconiche performance,un piccolo assaggio dei temi portati avanti lungo tutto il percorso : Imponderabilia.
Ad uno ad uno gli spettatori devono passare nello stretto vano di accesso alla mostra a contatto coi corpi nudi di due performer, intenti a fissarsi impassibili negli occhi.
Il pubblico e l’artista interagiscono attraverso un contatto fisico e personale nel quale Il disagio e l’imbarazzo che la nudità genera è trasferito a coloro che sono vestiti, rendendoli protagonisti della scelta di passare o non farlo, dove girarsi o dove guardare.
Se all’epoca questa performance fu giudicata scandalosa, l’eco della potenza espressiva di questo atto rimane fortissimo tuttora ed evidenzia il desiderio dell’artista di portarci ad abbandonare ogni preconcetto e di concederci all’inaspettato.
Durante il passaggio nelle sale non si può fare a meno di notare con quanto ardore sia abbattuta la concezione canonica di arte e di quanta forza venga dimostrata nel proporre esibizioni estreme ed anticonformiste.
Durante tutte le sue esibizioni, in una carriera lunghissima piena di esperienze,Marina ha avuto sempre un obiettivo: esplorare senza riserva il limite del corpo umano.
Una missione che ha scelto di compiere non completamente sola, ma in compagnia di Ulay, compagno nell’arte e, per dieci anni, di vita.
Negli anni passati a viaggiare da un polo all’altro del mondo vivendo in un furgone (esposto all’ingresso della mostra), gli artisti hanno ideato performance spettacolari e di grande impatto emotivo, nelle quali i due corpi diventano oggetti sottoposti a prove estenuanti davanti a un pubblico a tratti sconvolto sostenendo:
“Quello che stai facendo non è importante. Ciò che è veramente importante è lo stato mentale con cui lo fai”.
E sicuramente Marina di presenza mentale ne aveva da vendere, considerate tutte le ore passate seduta a fissare negli occhi spettatori su una rigida panca di legno, oppure a urlare fino a perdere la voce.
Nulla sembra spaventare questa artista serba che non è intimidita dal digiuno, dal dolore fisico e che più volte ha messo a rischio la sua stessa vita per la messa in scena di una performance, per esempio facendosi tendere una freccia al cuore e lasciando tenere la corda dell’arco tesa ad Ulay.
La sopportazione di queste situazioni così estreme per ore interminabili stupisce, lascia senza parole.
Forse è più facile guardare un quadro che sottoporsi alla potenza dello sguardo di un performer che, seguendo le orme di Marina Abramovic, accetta di digiunare dodici giorni e vivere sospeso su una struttura senza pareti condividendo ogni attimo della sua giornata col pubblico.
Un quadro non comunicherà mai le stesse sensazioni che suscitano queste opere, perchè non ne faremo mai parte.
L’Abramovic porta ognuno di noi dentro l’opera fino a trasformare noi stessi, le nostre emozioni, le nostre reazioni in arte, e questo ci tocca in modo unico ed inimitabile, mettendoci di fronte a noi stessi e facendoci riflettere.
“Perché alla fine sei davvero solo, qualunque cosa tu faccia”.
Durante il percorso portiamo l’arte in noi, e al momento di appoggiare gli auricolari delle guide e riprendere lo zaino siamo pronti a tornare semplicemente noi stessi, consapevoli di non aver solo visto arte, ma di essere stati capaci di viverla.