Giovedì 17 maggio i ragazzi di quarta e quinta del Liceo Attilio Bertolucci si sono recati al cinema Astra per partecipare all’incontro sulla Giustizia Riparativa. Ad accoglierli le storie travagliate di Giovanni Ricci, Giorgio Bazzega, figli di due delle tante vittime cadute durante gli “anni di piombo”, e Adriana Faranda, ex brigatista.
Il primo ad intervenire è Giorgio Bazzega, figlio del poliziotto Sergio, colpito a morte nel 1976 da Walter Alasia. Al tempo, Giorgio aveva solo due anni. Racconta di aver vissuto un’infanzia felice, non particolarmente movimentata. I problemi arrivano quando Giorgio era ormai un adolescente. La morte del padre aveva lasciato un punto interrogativo nella sua vita. In casa non riusciva a parlarne con la madre. Travolto da questo vuoto incolmabile, Giorgio trova rifugio nella droga, tra tentativi infruttuosi di disintossicarsi, un grande senso di fallimento, la necessità di parlare della morte del padre; si rende però conto che queste azioni non facevano altro che fomentare il suo odio.
La svolta partecipando ad un incontro con ex-combattenti della lotta armata: fu accolto a braccia aperte e soprattutto ascoltato. Attraverso il dialogo è riuscito a ridare umanità agli assassini che gli avevano portato via il padre e si è riappropriato soprattutto della sua umanità e dei valori per cui il padre era morto. La rabbia ha lasciato così il posto alla consapevolezza ed è stato in quel momento che Giorgio ha capito di essere guarito.
Giovanni Ricci, figlio di Domenico, l’appuntato dei carabinieri ucciso in Via Fani durante il sequestro di Aldo Moro, alla morte del padre aveva undici anni. Subito dopo l’eccidio in Via Fani, era travolto da un sentimento di forte rabbia: non riusciva a spiegarsi la ferocia di chi gli aveva portato via il padre. Come Giorgio, desiderava vendetta. Alla nascita del figlio Domenico (stesso nome del padre) era preoccupato, ancora traumatizzato da ciò che aveva vissuto: si domandava come avrebbe dovuto educare il proprio figlio, cosa non avrebbe dovuto fargli mancare. La svolta arriva quando Giovani partecipò ad un incontro con ex-combattenti (tra cui Adriana Faranda). Contrariamente alle sue aspettative, non si ritrovò davanti a dei mostri, bensì delle persone che, come lui, erano straziati dal dolore ed anzi portavano ferite forse ancora più aperte delle sue. In quell’occasione si accorse di come la violenza, sia fisica che verbale, non aveva portato a nulla.
L’ultimo intervento è stato quello di Adriana Faranda, ex brigatista della colonna romana e parte attiva durante il sequestro di Aldo Moro. Adriana decide di aderire alle Brigate Rosse in seguito ad una scelta lungamente ragionata. Sentiva dentro di sé la forza dirompente di questo movimento. La morte di Moro però, nel 1978, segnò il suo allontanamento dalle BR. Fu presto incarcerata e scontò la sua pena. Non solo, una volta uscita di prigione i problemi non finirono. Dovette pagare il prezzo di aver fatto una scelta così radicale. Faticosamente, col tempo, riuscì a riallacciare i rapporti con la figlia Alessandra. Decise di incontrare le vittime. Percepiva il peso di quello che aveva fatto, le proprie responsabilità. Questo “sentirsi in debito”, in un certo senso, la portava ad avere un legame con le vittime. Attraverso un faticoso lavoro sulle parole, Adriana e i famigliari delle vittime, si sono riconosciuti come persone e non in base categorie d’appartenenza.
La consapevolezza con cui Adriana, Giorgio e Giovanni si sono presentati è frutto di un lungo cammino, la Giustizia Riparativa. L’evento fondatore della GR è l’istituzione in Canada dei cosidetti VORP (Victim-offender reparation programs) che risalgono alla prima metà degli anni ’70 e che introdussero nella sentenza di condanna stabilità dal giudice, alcuni accordi di riparazione scaturiti da una serie di incontri tra rei e vittime di reato. Già alla fine degli anni ’90 questa pratica si era ampiamente diffusa in Europa.
La GR non è altro che il tentativo di offrire un paradigma giuridico capace di affrontare i conflitti scaturiti da azioni illecite, coinvolgendo maggiormente la vittima, il reo e la comunità civile. Per quanto riguarda le vittime, si vuole riconoscere maggiormente i loro interessi, alla pari di quelli dello Stato la cui legge è stata infranta. Allo stesso modo, anche l’autore del reato è considerato portatore di interesse e di dignità, parimenti bisognoso di riconoscimento e di reintegrazione nel tessuto sociale della comunità. Infine, la partecipazione della comunità permetterebbe ai cittadini di leggere il crimine come un invito a migliorare le condizioni di vita di più persone, in particolare quelle più deboli.
La GR affonda le sue radici in tre principi, ovvero vuole ricordare la legge, difendere la società e rieducare l’individuo. Il reato non è più inteso come l’oltraggio di un individuo ai danni dello Stato, ma come la violazione di una persona ai danni di un’altra. Ne deriva che il carattere conflittuale assunto dalle relazioni tra individui e comunità occupa una posizione prioritaria rispetto alla violazione di una norma astratta. In questo senso, la connotazione del reato si arricchisce e oltrepassa la sola “qualifica penale”, entrando nel merito del problema sociale sottostante. Questo tipo di giustizia propone la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. Allo stesso modo, non abolisce in alcun modo la legge: si tratta solo di un’esperienza volta all’umanizzazione di elementi che nella realtà concreta non sempre ottengono il dovuto riconoscimento.
Senz’altro il dialogo è l’elemento e la risorsa principale di cui si serve la GR perché permette un avvicinamento reciproco tra le parti coinvolte. Infatti, riconoscere colui che è fonte della propria sofferenza (o viceversa, che è stato vittima della propria violenza) come in
terlocutore possibile, può significare aver già fatto un passo verso quell’umanizzazione reciproca che è l’accesso più diretto all’esperienza del pentimento, del perdono o, più in generale, della riconciliazione.
È anche vero che questo tipo di percorso non è per tutti: ci vuole tempo, maturità e soprattutto volontà da ambo le parti. Questa è una strada in salita che se scelta con consapevolezza può dare i suoi frutti. E Adriana, Giorgio e Giovanni hanno deciso di “vivere” e non più “sopravvivere” davanti alle loro sofferenze: l’amore per loro stessi ha trionfato, non si sono fermati alle difficoltà della vita e, con tanto coraggio, sono riusciti ad uccidere i fantasmi che si tenevano alle spalle.
Scalia Federica, V E