Il Vajont e una lezione mai imparata: la vita prima di tutto

Mi chiamo Giorgia; così com’è successo a tutti voi, anche io sono nata, e durante la mia vita ho avuto la fortuna di festeggiare diciotto compleanni. Suppongo di averne altri e altri ancora davanti a me; un elemento, questo, che ognuno di noi dà quasi per certo: “io vivrò”. Verrebbe da sperare che nessuno alla nostra età sia mai costretto a convivere anche solo un attimo con la preoccupazione della morte incombente.

Nemmeno i neonati, i bambini, e i ragazzi che la sera del 9 ottobre 1963 si godevano la vita nel paese di Longarone, in provincia di Belluno si aspettavano di morire. Su chi devono puntare il dito se questa serenità è stata loro portata via?

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Alcuni delle centinaia di pezzi di stoffa sui quali sono riportati i nomi dei bambini rimasti coinvolti nell’incidente

Non su “Madre Natura”, quella forza non del tutto imprevedibile ma sicuramente inarrestabile che l’essere umano adora biasimare. Bensì, sulla negligenza umana, sul pensiero fisso del profitto ad ogni costo, che allontana la mente e il cuore da quella che è l’unica vera cosa importante: vivere. Queste sono le cause principali del disastro che quella notte causò la morte a 1910 esseri viventi; persone, esattamente come noi.

Marco Paolini ha tenuto uno spettacolo teatrale nel 1998, proprio nella valle del Vajont, troppo vicino al luogo dove si trovava il paese di Longarone prima della catastrofe; ci narra l’accaduto: “La sera del 9 ottobre del 1963, dal Monte Toc, sul fianco destro della Valle, si stacca una frana di 260 milioni di metri cubi; precipita nel lago dietro la diga e solleva un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua, che solo per metà passa oltre, il che è più che sufficiente per spazzare via cinque paesi, tra cui Longarone.” All’epoca Paolini frequentava la seconda elementare e ci racconta la reazione di sua mamma alla notizia dell’accaduto: d’un tratto siamo già nel vivo del suo monologo, ancora una volta trasportati in un mondo che a noi, che di tragedie di questa entità non ne abbiamo mai vissute, pare surreale. Paolini, oltre alla spiegazione dei dati tecnichi tradotti in chiave più accattivamente, non può dimenticarsi di accusare la negligenza dei responsabili, che oltre ad aver sottovalutato l’imponenza della frana non hanno nemmeno preso in considerazione il problema degli abitanti del paese in fondo alla vallata.

Il secondo paese di Longarone immortalato dalla cima della diga
Il paese di Longarone ricostruito immortalato dalla cima della diga

Madre Natura non è del tutto imprevedibile, in realtà: questa tragedia era stata preannunciata da molte persone, fra le quali Tina Merlin: ex staffetta partigiana, coraggiosa giornalista, era riuscita ad ottenere parecchie informazioni scomode sull’effettiva precarietà dell’intero complesso. L’azienda responsabile, dopo aver perso il processo contro di lei, è riuscita a far tornare i conti comunque, all’unico scopo di mantenere alti i guadagni ricavati da quell’enorme serbatoio artificiale; solo a pensare al suo volume, di 360.000 m³, e al suo bacino di 168,715 milioni di metri cubi, vengono i brividi; e a quell’insignificante muro, dove ai 200 metri preesistenti sono stati aggiunti un’altra sessantina di metri, tanto per mettere a tacere un po’ la coscienza.  dsc_0041

La diga del Vajont per molti altro non è che uno straordinario esempio di ingenieria civile, innalzata da centinaia di uomini in nome del progresso, tutt’ora studiata da molti studiosi del settore. Invece, senza esitare un attimo, dovrebbe essere definita unicamente come un’arma di distruzione di massa, così come un qualsiasi fucile usato in una delle troppe guerre che hanno insaguinato il mondo: nessuna arma in sè ha colpa per l’uso che l’uomo ne fa; e così come quelle troppe guerre, anche la tragedia del Vajont è stata dimenticata.

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Il modellino della diga situato alla centrale dell’Enel

Talmente tanto schiacciata fra le altre interminabili stragi archiviate che la modernità ha portato con sè, che se non avessi aderito all’iniziativa che la mia scuola e la facoltà di geologia di Parma hanno organizzato, probabilmente questa sarebbe stata l’ennesima brutta notizia mediatica, di quelle che sempre più distrattamente arrivano a noi, come una musica poco orecchiabile che si disperde in lontananza. Dimenticata ancora più in fretta, in quanto si parla di un’epoca molto lontana, dove alcuni aspetti ci possono sembrare talvolta inspiegabili, e molte abitudini con l’avvento di internet sembrano essere distanti anni luce. 

La mia angoscia è sempre la stessa: come può l’uomo in queste situazioni non prendere mai in considerazione i suoi simili per primi? Continueremo sempre più a sprofondare in questo oblio privo di qualsiasi calore umano?

Bob Dylan cantava negli ultimi versi della sua celebre Blowin’ in the wind:

“Quante orecchie deve avere un uomo

prima di poter sentire la disperazione della gente?

E quante morti ci vorranno perchè egli sappia

che troppe persone sono morte?

La risposta, amico mio, è dispersa nel vento

La risposta è dispersa nel vento”

Quello che rimane dell'acqua della diga (foto scattata dalla cima della frana)
Quello che rimane dell’acqua della diga (foto scattata dalla cima della frana)
Articolo di Giorgia Zantei
Fotografie di Federico Boccucci

 

 

 

 

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