Invecchiata, imbruttita, una sigaretta in mano: ritratto un po’ atipico, se si pensa che stiamo parlando di Venere. E’ lei, interpretata da Anna Coppola, il personaggio che apre la scena della emozionante rappresentazione della Fedra di Seneca al Piccolo Teatro di Milano, ideata dal regista Andrea De Rosa: uno spettacolo incredibile che rompe ogni barriera e raggiunge il pubblico in maniera diretta e totalizzante, senza usare grandi effetti scenici, ma soltanto con la forza della recitazione.
Su un palco scarno, con una scenografia essenziale, anzi praticamente assente ad eccezione di un grande cubo trasparente, agiscono i pochi personaggi della tragedia: Ippolito (Fabrizio Falco), un giovane dedito alla caccia che disprezza il genere femminile, Teseo (Luca Lazzareschi) con la moglie Fedra (Laura Marinoni), la protagonista, e infine l’ancella (Tamara Balducci). Afrodite, anzi Venere, adirata nei confronti di Ippolito che, devoto ad Artemide, anzi Diana, disprezza il suo potere, fa nascere nella matrigna Fedra un amore incestuoso per il figliastro: la donna, in balia della passione, confessa ad Ippolito il suo sentimento, ma viene respinta. Decide allora di togliersi la vita, raccontando però al marito che il gesto è dovuto alla vergogna per essere stata violentata dal figlio. Una nuova passione si accende allora in Teseo, l’ira. La situazione degenera in un turbine di follia, che porterà a conseguenze rovinose…
L’intento di Seneca è chiaro: mettere in scena i risultati nefasti provocati dal totale lasciarsi andare alle passioni. Ma come può una dea così sciupata e decaduta essere il motore di azioni tanto brutali? La Venere rappresentata è una dea in pensione, senza più alcuno spiraglio di azione sulla vita umana. Una dea degradata da vizi troppo umani, che non è Venere, non è Afrodite, ma siamo noi; noi siamo responsabili del nostro male, che ci cresce dentro, è connaturato in noi, non è scatenato dall’intervento divino. E il cubo di vetro che si staglia trasparente e lucido sulla scena è in realtà una mente annebbiata, teatro di questo male e della sua potenza devastante. Al suo interno avvengono le scene più sfrenate e coinvolgenti; una volta entrati nel cubo, tutti i personaggi smettono di essere padroni di se stessi e si abbandonano alla carica distruttiva della passione. Tutti tranne uno, Venere, che in esso non mette mai piede: la nostra ragione è fuori dal cubo, ad irridere il furor di cui siamo schiavi.
Proprio così, Venere rappresenta la bona mens, che contempla dal di fuori il male della passione senza poter intervenire, dovendosi limitare ad osservare senza poter agire. Il cubo è una gabbia in cui l’uomo è prigioniero di se stesso, una gabbia dalla quale non si può essere liberati da nessun intervento esterno. Perfino la dea risulta impotente, il diapason che durante tutto il corso dello spettacolo ha suonato per annunciare l’intervento della divinità ora tace, e anzi tacerà per sempre, decretando la fine di quegli dei protagonisti e promotori delle vicende terrene tanto cari al passato. Dio è morto. O forse, semplicemente, osserva indifferente e divertito la degenerazione del dramma dell’uomo: una sigaretta, un martini e due risate, controcanto razionale alla follia umana.