VIAGGIO DELLA MEMORIA – RIFLESSIONI

Quando siamo arrivati al campo e siamo entrati, pareva un po’ come entrare nella porta dell’inferno.

Aldo Carpi, Diario di Gusen.
197.464 coloro che hanno varcato la soglia arcuata del cortile del campo di concentramento Mauthausen-Gusen. Più della metà di loro non ne sarebbe uscita.
Non c’era morte oggi, in quel campo. Nessuna adunata nel cortile, ne turni di lavoro alla cava.
Non risulta difficile però immaginare. I racconti della guida ci trasportano in un doloroso trascorso.
La memoria. Questo è l’obiettivo.
Non si può dimenticare un passato di disumanità, non se ne possono dimenticare le vittime. Colpa di pochi, responsabilità di molti. Migliaia di persone sono passate davanti ai civili della piccola cittadina di Mauthausen per raggiungere con una marcia di alcuni chilometri la fortezza del campo, eretta in cima a una collinetta sovrastante il paese. Nessuno mai si è opposto. Il 27 settembre 1941 Elenore Gusenbauer, proprietaria di una fattoria di fronte alla cava si limita, in una lettera alla polizia di Mauthausen, a chiedere di porre fine a queste azioni disumane o di svolgerle in differente luogo, a causa della sua debolezza di cuore. A nessuno importava più di tanto. La vita continuava come se niente fosse. L’omertà era all’ordine del giorno. O nessuno si rendeva conto di cosa realmente accadesse all’interno di quelle mura di grigio granito? Ma come è possibile non vedere qualcosa che si ha sotto gli occhi ogni giorno? Ma forse la domanda giusta è: come si fa a non voler vedere?
Nel lager, un campo da calcio, proprio lì, di fianco alle baracche dei malati. Coloro che per sei giorni avevano incusso terrore e morte la domenica giocavano a calcio con squadre provenienti da tutta la regione. Erano la squadra delle SS. Del resto non avevano diritto anche loro a un meritato riposo dopo tanto duro lavoro? Mentre si giocava per il divertimento umano, cinquanta metri più in alto trovavamo esseri a cui l’umanità era stata strappata, come la dignità, con la forza.
Qualcuno tremava per il freddo oggi, nonostante giacca e sciarpa fossero ben sistemate. Lo stesso freddo settantacinque anni fa circa allo stesso modo ha incontrato gli internati del campo, con la piccola differenza che la loro pelle non era coperta che di stracci, scalfita dalla gelida aria del tagliente inverno di Mauthausen.
Dimenticare significa accettare, accettare significa diventarne responsabili.
Nessuno può permettersi di lasciar sbiadire il ricordo delle atrocità che i campi hanno portato. Oggi la memoria è viva e forte in noi, che abbiamo avuto l’opportunità di farci portavoce di un messaggio senza tempo: ricordate.
La memoria. Questo è l’obiettivo.
Fabio Lestini
 ——————————————————————————————————————–2.02.2017 Linz, Austria

Cos’è rimasto?

Cosa rimane di un fiore quando è passata la più grande delle tempeste?

Dove vengono portati i suoi petali e la sua forza che prima lo teneva stretto alla terra?

Un’intera vita per costruirsi, per poi essere spazzati come polvere.

Calpestare i loro passi, annullarsi per un attimo e rendersi trasparenti. Lasciare che la mente si senta responsabile di una tale sconfitta umana.

‘ Mi dispiace’, ‘Com’è potuto accadere? Come fa un uomo ad essere indifferente di fronte alla morte di un suo simile?’. Queste le uniche parole che possono essere pronunciate sottovoce; il resto solo pensieri e immaginazione che fluttuano tra sensi di colpa e rabbia.

Fortunati di poter guardare e non provare. Ecco cosa siamo noi oggi, qui, in questo campo. Fortunati di non sentire questo freddo penetrare sotto luride camicie, di non esser destinati a morire senza nome e di poter lottare affinché tutto questo non accada nuovamente.

Hanno resistito sei anni in queste condizioni: 240 grammi di carne 83 grammi di grassi e 910 di pane. Ma non hanno resistito perché erano più robusti o più furbi. No. L’unica speranza che legava queste anime trasparenti era la solidarietà. Un sentimento che a noi oggi sembra quasi scontato e radicato, ma  non è così quando si deve lottar per vivere:  niente è scontato quando domina l’istinto di sopravvivenza. Persone che hanno preferito condividere un pezzo di pane piuttosto che morire come polvere senza neanche il ricordo nella mente di chi ha provato il tuo stesso dolore.

Ricordare per ridare vita a tutto ciò che è stato annullato, per dare un nome a coloro che l’hanno perso. Ricordare per attutire i sensi di colpa che ci invadono rendendoci responsabili, anche se per pochi minuti.

Sarebbero appassiti in ogni caso quei fiori. Magari in un’altra stagione, magari sotto un cielo più sereno.

In memoria di quei fiori che hanno lasciato un solco più profondo nella terra più arida.

Virginia Cavallotti

  • tags

Può interessarti...