Mohammed Shohayet, la voce di un massacro dimenticato

E’ il 4 dicembre; il fruscio delle foglie e le risate dei bambini riempiono l’aria di festa. A un certo punto il rumore assordante di un elicottero rompe questo clima di pace. “Non stavamo facendo nulla di male quando hanno iniziato a sparaci contro. Siamo dovuti scappare e nasconderci nella giungla”, racconta il padre del piccolo Mohammed ancora scioccato.

Quel massacro era solo l’inizio del tragico viaggio. “Ho camminato per sei giorni. Non ho potuto mangiare neanche del riso per quattro giorni. Non ho potuto dormire per sei giorni. Dovevamo cambiare posto continuamente perché i soldati cercavano i Rohingya” continua il padre. “Vedevo persone disperate buttarsi a terra,myanmar_-_rohingya_boat_people lasciarsi abbandonare alla fame e alla stanchezza; ma io no, non ho mollato, volevo raggiungere la mia famiglia”. Il settimo giorno arriva al fiume, dove viene soccorso da un pescatore bengalese. Chiama sul cellulare la moglie e sente il piccolo pronunciare il suo nome: “Abba, Abba!”

Dice alla moglie di aspettare, che sarebbe tornato tutto alla normalità, ma i militari birmani hanno iniziato a sparare sui fuggitivi. Il pescatore raccoglie più persone possibili. Troppe. Affonda.


Alam no
n sa più nulla della famiglia, fino a quando un conoscente gli dice di aver visto e fotografato suo figlio: morto. E lui era lì, abbandonato nel fango, a faccia in giù e braccia nude. “Quando vedo questa foto, sento che vorrei morire. Non ha più senso per me vivere in questo mondo” ha raccontato Alam alla CNN.

Un giovane volto indurito da rabbia e dolore che non dimenticherà mai il suo piccolo amore. Guarda dritto nell’obiettivo del fotografo, una lacrima gli attraversa il viso; ha deciso: lotterà per il suo bimbo e per il suo popolo che scappa dai militari della Birmania, da un conflitto dimenticato da tutti.

In poche ore, la storia di Mohammed è diventata il simbolo della migrazione dei Rohingya, la minoranza musulmana, secondo le Nazioni Unite, “più perseguitata del mondo”. Nonostante vivano in Birmania da molte generazioni, non sono riconosciuti tra le minoranze etniche e vengono etichettati come immigrati irregolari.

La commovente storia d_90894553_52346c3a-ea4b-40d5-968d-b219d0b3494bel piccolo potrebbe quindi spingere il premio nobel Aung San Suu Kyi a rompere questo assordante silenzio sull’emergenza umanitaria nelle zone colpite.

Non siamo in un mondo delle favole: la storia non va sempre a lieto fine.

Testa o croce?  Solo la sorte saprà darci una risposta. C’è chi nasce in una grande metropoli negli Stati Uniti, chi in una piccola cittadina a nord della Finlandia, chi invece in un povero paese della Birmania.

Ed è proprio qui che comincia la storia di Mohammed Shohayet.  

 

                                                                                                                                                                                    

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