Entrarono con il dubbio che forse non sarebbero mai usciti. Noi siamo entrati avendone la certezza. Noi, noi studenti, abbiamo deciso volontariamente di recarci in questo luogo terribile, mentre quei 200.000 deportati sono arrivati qui semplicemente per la colpa di essere nati. Si vedono le docce, le baracche e la piazza d’appello, ma si può solo immaginare cosa possa essere stato. Credo che la parte razionale del nostro cervello ci impedisca, almeno fino in fondo, di comprendere queste atrocità.
Oggi nevicava, eravamo coperti con giacche, sciarpe, capelli e guanti, nonostante ciò si soffriva terribilmente il freddo. Com’è possibile che qualcuno abbia lasciato altri esseri umani fuori, esposti alla neve e al gelo, con solo una tuta a righe leggerissima e un paio di zoccoli di legno? Qui la mente di una persona “normale” si ferma. Le botte, le spinte giù sulla scala della morte giusto per il gusto del vedere la sofferenza altrui sono inspiegabili. Probabilmente per questo motivo la gente tende a dimenticare, come si può ricordare qualcosa che non si può comprendere completamente? Bisogna lottare, lottare per quelle poche testimonianze rimangano sempre vivide per poter permettere almeno di immaginare, di sapere. E’ stata l’indifferenza che ha reso il sistema nazista così potente, ma l’indifferenza non dovrà mai permettere che una tale atrocità, barbarie, crimine possa avvenire nuovamente nel futuro.
Anna Marchesi
Mentre la corriera procedeva su per quella strada verso il campo, le emozioni aumentavano. Provavo ad immaginarmi al posto di uno di quei tanti che furono strappati dalla loro famiglia e, costretti, si incamminarono verso un destino scuro e senza la certezza del domani.Avevo freddo nonostante le calze a maglia, il pile, la giacca pesante e la sciarpa, il vento soffiava forte e la neve aumentava e diminuiva a tratti. Io avevo freddo, loro morirono di freddo.Ogni secondo che passava capivo quanto sono fortunata e quanto la propria strada possa cambiare dall’oggi al domani.Mi è rimasta impressa una frase che uscì dalla bocca di un italiano sopravvissuto alla vita del campo. Egli parlava del giorno in cui gli americani arrivarono a liberarli e disse: “E’ stata la gioia più grande della mia vita; polacchi, russi, italiani, spagnoli, non esisteva più una razza, tutti si abbracciavano e gridavano dalla felicità”. Penso che queste parole dicano tutto. Il dolore della condizione comune porta a sentirci tutti fratelli, mentre spesso sottovalutiamo le situazioni e perdiamo tempo a sentirci superiori rispetto a qualcun altro, senza pensare a ciò che c’è stato prima e a ciò che potrà succedere in futuro.Ottavia Ollari
Viaggio della memoria. Pensieri e Immagini da Mauthausen
